Omaggio a San Prisco

di Bartolomeo Di Monaco

 

Sono venuto al mondo in un piccolo paese vicino a Caserta: San Prisco. Quando nacqui, i miei genitori vivevano già a Lucca; mio padre vi era arrivato nel 1930, prendendovi la cittadinanza esattamente il 29 ottobre di quello stesso anno. Si sposò con mia madre il 17 aprile 1939 e a Lucca nacque il primogenito Giuseppe nel maggio del 1940, come pure il terzogenito Mario, nel marzo del 1946. Io sono il mediano, nato nel 1942. Era di gennaio, un freddo gennaio, e mia madre si trovava a San Prisco, dove si era trasferita sin dai primi di dicembre per partorire me presso la sua mamma Maria – essendo in tempo di guerra. Nacqui il 14 di quel mese gelido nella casa dei miei nonni materni. Dopo 40 giorni mia madre fece ritorno a Lucca in treno. Con me erano anche mio padre e mio fratello Giuseppe.

Da ragazzo, sono tornato spesso, in occasione delle vacanze estive, al paese natale, del quale mi sono rimasti indelebili ricordi. Ne scrissi molti anni fa, in un racconto che non ho più ripreso. Li ripropongo qui, sparsi com’erano.

Al mio paese natale nel mese di settembre si celebrano grandi feste in onore della Madonna. Ero ragazzo e quasi ogni anno per quel tempo la mia famiglia si trasferiva da Lucca a San Prisco e vi restava per alcune settimane. I miei genitori avevano molta nostalgia della loro terra e mi accorgevo, quando si era là, che acquistavano un colorito ed una allegria straordinari.

Il viaggio, che facevamo in treno, era massacrante, circa seicento chilometri in terza classe, su sedili quasi sempre di legno. Il cambio a Roma, dentro quell’enorme stazione già allora brulicante di viaggiatori, con la rincorsa che facevamo alla coincidenza carichi di pesanti valigie, mi dava una sensazione di sgomento e anche di avventura, soprattutto se pensavo che andavo nel mio Sud assolato, arido, bruciato, ricco di rovi e di fichi d’india.

Le stazioncine che incontravamo nel tratto campano erano minuscole, quasi sempre deserte, adorne al massimo di una panchina di ferro dalla vernice corrosa. Scendevamo a S. Maria Capua Vetere al mattino molto presto. Ci attendeva, sempre sorridente, zio Michele, dal cuore generosissimo. Andavamo al piano di sopra, dove era sistemato un ampio bar (così lo ricordo), ci ristoravamo. Il barman aveva imparato a riconoscerci e ogni volta ci accoglieva con molta cordialità. Lo zio faceva sempre venire una carrozzella e con quella giungevamo in paese.

L’aria era già satura di festa, lo sentivamo non appena si arrivava in piazza, dove a quell’ora del mattino, gli spazzini erano intenti a pulire e rimettere ordine. La sera partecipavo anch’io alla festa. Veniva a prendermi mio cugino Luigi. Entrava nell’aia, dove lo attendevo giocando con altri ragazzi, vicini di casa, e si usciva insieme nella strada, tutta illuminata e già piena di gente.

Ricordo che una sera era stato allestito un palco per un cantante, noto da quelle parti. Intorno a quello che calca di gente! Alcuni ingegnosi davano in affitto le sedie di paglia (si usava, e forse si usa ancora, anche nelle chiese). Ne prendevamo per noi. Qualcuno passava a salutarci: delle ragazze che conoscevano mio cugino non mancavano l’occasione di avvicinare anche me, il forestiero. Quasi tutte indossavano abiti migliori, si chiacchierava, si mangiava soprattutto cocomero e noccioline. Non si pensava molto alle ragazze, ma il loro ricordo ora mi esalta, al pensiero di come la vita a quell’età è rigogliosa, intraprendente, spontanea.

Una ragazza del Sud quando è bella non lo è in modo semplice, diventa stupenda; ogni cosa è perfetta: il nero colorito degli occhi e dei capelli, l’abbronzatura della pelle; le forme di una rotondità misurata; le labbra rosse, aperte, pronunciate, colme di sensualità, inebriante su quel carnato scuro.

Dai pochi episodi narratimi ogni tanto, nei momenti di maggiore confidenza, riesco ad immaginare mia madre giovane, intenta a cucire sull’aia della casa paterna, a San Prisco. Doveva essere una bella ragazza, ed io stesso ho sentito lodarla dai vicini, che la conobbero a Lucca. Molti giovani la corteggiavano, ma mia madre non dava ascolto né incoraggiava nessuno, del resto i genitori non l’avrebbero fatta sposare o anche fidanzare se non dopo le sorelle più grandi.

Immagino le lunghe giornate trascorse sulla macchina da cucire, in mezzo a quell’enorme aia sulla quale si affacciavano altre famiglie. Quella di mia madre era numerosa: tredici tra fratelli e sorelle; i maschi soprattutto profittavano della sorella sartina e le ronzavano intorno per farsi cucire una camicia, una giacca, un pantalone, per poi correre in strada a mostrarsi belli. Sgobbavano tutto il giorno nei campi, fino a tardi. Degli zii Gaetano e Nicola, ricordo così bene quando al mattino, non ancora l’alba, venivano a prenderci col carro e ci portavano con loro. Quelle notti non si dormiva; appena il rumore delle ruote entrava nel cortile, era una febbre che ci prendeva. Gli zii davano un fischio e subito si appariva: ebbri, elettrizzati. Prendevamo il canalone, una gola stretta ricca di fascino, segnato da solchi profondi per il gran numero di carri che vi erano passati in tanti anni; si scendeva ogni tanto a cogliere fichi d’india, e anche le more che pendevano giù lungo la parete della gola. Una volta nei campi, che ricordo così vasti, così ricchi di piantagioni, di frutta, per noi cominciava il momento più entusiasmante.

Gli zii ci lasciavano correre liberi, e noi si turbinava lungo i filari della vigna, o sotto i noci, nel mezzo di un cielo limpido, asciutto. Ai bordi dei campi, crescevano tanto copiosamente i fichi d’india, di cui eravamo ghiotti, Ci coprivamo le mani di spine, ma che gioia nel momento in cui assaporavamo il dolcissimo frutto, sconosciuto da noi in Toscana! In questa terra è cresciuta mia madre; la sua giovinezza è maturata in questo ambiente rustico, ma denso di vita, colmo di sapore, in cui la giornata, pur lenta a passare, pesante per il clima arroventato, era tutta piena di lavoro, di operosità.

Quando si rientrava, gli zii portavano le mucche e i cavalli nella stalla. Ai nostri occhi quei gesti assumevano il fascino di un rito antico, sempre uguale; i finimenti erano appesi in cortile, ad un chiodo rozzo; il carro era messo sotto una tettoia, ci pareva altissimo, ci arrampicavamo fino a toccare le stanghe, ritte verso il cielo. La partenza di mia madre, che veniva sposa a Lucca, lasciò molti rimpianti, La sua figurina gentile, sempre presente nel cortile, chinata sulla macchina da cucire (una Singer che si portò sempre con sé), era diventata per tutti una cara, calda consuetudine. Mio padre, rimasto vedovo, l’aveva vista poche volte e se n’era invaghito. Era riuscito a vincere la sua timidezza attraverso amicizie e parentele. E mia madre, forse incerta, ancora inesperta, si convinse a quel passo che segnò il mio destino.

Il vigore del Sud erompe ad ogni angolo di strada, da ogni zolla. Tutto è cotto dal sole; perfino i villaggi, i paesi, i muri dei viottoli (dei “vichi”) paiono immersi in una luce bianca, allucinante. La forza del Sud è la violenza del suo sole che ha soggiogato ogni cosa, l’ha vinta, l’ha costretta ad una quiete magica, che ubriaca, conturba il pensiero.

Il mio paese, specialmente d’estate, così allungato nella campagna arsa, odorosa di terra e di tabacco, aveva lunghi pomeriggi assolati, silenziosi; i contadini, nei campi, riposavano sotto i noci; le bestie, liberate dall’aratro, brucavano qua e là tra i rovi. Ne approfittavo per passeggiare in strada; al di là degli alti muri di cinta delle masserie sentivo il chiacchiericcio dei lavoranti, con la bocca piena di pane; soprattutto le donne ridevano, con rapidi trilli. Dai portoni usciva l’odore forte della stalla: lo starnazzare delle oche, il grugnire mugoloso del maiale. Mi sentivo invadere da una pienezza calda, ubriacato da questo superbo, stracolmo sapore della vita. Per le viuzze non incontravo nessuno.

I pochi sfaccendati stavano rintanati all’osteria. Passando di là, mi giungeva il loro gridare: e l’odore del vino, grasso, ricco di fumo. Vorrei essere ancora là, toccare quei muri che certo mi ricordano; arrestarmi ad ascoltare l’abbaiare di un cane; gustarne lo sferragliare della catena. Sull’aia della mia casa natale, al tempo della mia infanzia, abitava anche una famiglia di carrettieri. Il padre era un omone robusto ed energico e così anche i figli, uomini e donne, tutti ben piantati; le donne, soprattutto una ne ricordo, erano spigliate, vivaci, pronte al motto arguto, anche salace.

L’officina era sul retro. Lavoravano tutti là, con la fornace accesa che allungava i suoi bagliori fin nell’angolo più lontano del cortile. Dappertutto si trovavano stanghe, ruote, spallette da rifinire, qualche carretto pronto. Le ruote erano enormi, stupende per la bellezza che riuscivano a conferire al carro. A guardia di giorno e di notte, poiché il cortile era aperto, stava un mastino nero, legato ad un filo di ferro che correva lungo tutto il perimetro, dimodoché il cane poteva arrivare all’improvviso dovunque.

Era una bestia armoniosa, anche se la sua grossa mole in principio poteva infastidire, farlo giudicare brutto. Invece era magnifico; il manto nerissimo accresceva la sensazione di potenza, di aggressività: molto lucido, sul quale spiccava il caratteristico collare di cuoio, largo, chiodato. Quando andavo a trovarli, soprattutto le donne avevano piacere di mostrarmelo, in specie di sera, allorché accendendo la piccola luce del cortile, me lo trovavo lì davanti, ringhiante, con gli occhi gialli. Bastava però un ordine della padroncina perché si rincantucciasse.

Erano serate calde e si stava bene fuori. Da quel cortile allargavo lo sguardo sulla campagna scura; qua e là spiccavano le rade luci. Alcune case, costruite fuori del paese, si sperdevano nel buio; appena si notava la loro sagoma nera. Una luce era posta su di un ponticello minuscolo, quasi fiabesco. Calamitava sempre il mio sguardo e anche oggi, ricercando le immagini di allora, lo vedo laggiù, in mezzo alla nera campagna, illuminato. Da ragazzo, quando mi recavo a San Prisco a trascorrere le vacanze estive, la sorella di mia madre, Matrona, voleva che andassi a stare con lei.

La casa era tipicamente meridionale, dal grosso portone che lo zio Alessandro la sera chiudeva con cura, con gesti che sapevano di antico: parevano attrarre nell’aia, illuminata da una fioca luce, la quiete calda del Sud. Mia zia mi raccontava delle storie, rideva del suo dialetto, le piaceva non farsi capire. Mio cugino Luigi la burlava e si divertiva anche lui, quando sua madre e mia cugina Sisina si provavano ad insegnarmelo.

Nell’aia, sotto le scale che conducevano alle camere, si trovava il pozzo. Tiravo su il secchio con entusiasmo; mia zia allungava il braccio per afferrarlo e lo scroscio dell’acqua, che traboccando ripiombava giù nel fondo, mi procurava un piacere pungente. Era un rito che si svolgeva più volte durante il giorno, ma il suo fascino magico lo aveva di sera quando s’era tutti in cerchio sull’aia, col portone chiuso, immersi nel silenzio circostante.

 

Bartolomeo Di Monaco

https://www.bartolomeodimonaco.it/

Bartolomeo Di Monaco è nato a San Prisco (Caserta) il 14 gennaio 1942 e risiede a Lucca dalla nascita. Vive a Montuolo, una piccola frazione a 5 Km dalla città. Ha diretto il periodico quadrimestrale “Racconti e poesie” (1992–1999), la cui intera raccolta si può consultare presso la Biblioteca Statale di Lucca. È presidente onorario dell’Associazione culturale “Cesare Viviani”. E’ autori di numerosissime opere di narrativa e di saggistica letteraria.

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